sabato 2 aprile 2016

Otii Encomium

Albrecht Dürer, 'Melencolia I' (1514)


























Dopo aver passato un periodo piuttosto intenso in cui avevo sia un lavoro che un saggio da consegnare per l’università, ho deciso di scrivere di un tema a me caro: l’ozio. Per quanto possa sembrare banale, forse anche ridicolo, ho avuto modo di riflettere negli ultimi mesi su quanto sia fondamentale avere delle ore di ozio nella vita quotidiana.

Il termine in sé deriva dal latino otium che nasceva in contrapposizione al negotium (spesso al plurale negotia), ossia quell’insieme di attività che derivavano dalla partecipazione alla vita pubblica e/o socio-economica. L’ozio, al contrario, era il tempo libero, se vogliamo semplificare, ossia tutto quel tempo che l’individuo dedicava a qualsivoglia attività egli desiderasse svolgere.

Per approfondire questo aspetto, credo sia essenziale fare una premessa. Quando facciamo parte di una società civile, indossiamo una maschera giuridica che sostanzialmente limita la nostra persona ad una serie di diritti, di doveri, di responsabilità e di mansioni. Non è un caso che la parola “persona” in latino significasse originariamente “maschera”: il termine in sé infatti deriva dal verbo “per-sonare”, “suonare attraverso”, in riferimento alla fessura attraverso cui la voce deve passare quando un individuo, e nello specifico dell’etimo un attore teatrale, indossa una maschera. Pertanto, durante i nostri negotia, noi indossiamo una maschera a seconda di quale mansione svolgiamo all’interno della società di cui facciamo parte.

Il termine che si contrappone a “persona” è quello di individuo. Anche questo deriva dal latino, dove “in-dividuus” indica tutto ciò che è indivisibile e di conseguenza unico, speciale. Durante il nostro ozio siamo pertanto individui, unici e irripetibili, ognuno coi propri interessi e le proprie peculiarità. Il tempo libero rappresenta quindi quel lasso di tempo in cui l’individuo si toglie la propria maschera di persona per poter esplorare e migliorare le proprie capacità.

In una società capitalistica come quella in cui viviamo ogni giorno, veniamo costantemente spronati ad utilizzare il nostro tempo in modo produttivo. Ritengo, però, che non sempre si faccia attenzione al modo in cui viene utilizzato questo aggettivo. Nell’interesse del gretto capitale, infatti, ognuno dovrebbe portare la propria maschera di persona molto più a lungo di quanto necessario. Figure come quelle dell’imprenditore e del libero professionista, rese possibili tra le altre cose dal sistema socio-economico odierno, consentono e, di fatto, spingono gli individui nascosti dietro alle loro maschere a trascurare tutto ciò che invece a mio avviso andrebbe incoraggiato. Tutto questo, ovviamente, nel quadro di una logica prettamente economica dove più lavoro, più guadagno, più posso permettermi oggetti che mi garantiscano un certo status sociale.

Il mio interesse per questa tematica, già palesato, tra le altre cose, nel monologo intitolato ‘Il fabbro’, è cresciuto negli ultimi mesi come risultato della sopraccitata strana congiuntura storica tra studio e lavoro, congiuntura a me sconosciuta fino a poche settimane fa. Lavorare, anche solo part-time, per poi tornare a casa e dedicarsi ad attività più intellettuali come la stesura di un saggio può essere, non lo nego, molto soddisfacente, purché le due non vadano ad inficiarsi reciprocamente – e, naturalmente, purché le due siano fatte con un certo grado di soddisfazione che esuli dal semplice interesse materiale per il denaro. Fintanto che scrivo un saggio su un romanzo fenomenale di una scrittrice geniale posso ancora ricavarne qualcosa che vada oltre la concretezza della consegna dello stesso ai fini dei crediti universitari.

Tuttavia, osservando le persone intorno a me, noto come molti individui si debbano privare del proprio otium per inseguire degli obiettivi non sempre piacevoli e non sempre così dettati da un interesse genuino per la materia o la sostanza di cui si parla. Certo, nulla vieta loro, in qualità di persone, di dedicarsi ad attività noiose o poco gradite, anzi, è necessario occuparsi anche di queste di tanto in tanto – il lavoro dei sogni probabilmente nasconde delle insidie non sempre visibili di primo acchito. Quando il negotium però viene ad appropriarsi dell’otium, io credo sia necessario tornare alla radice del problema. I ritmi frenetici possono anche esserci, oggi più che mai, ma credo sia imprescindibile tenere sempre a mente che non siamo solo delle “personae”, ma anche e soprattutto degli “individui”.

L’ozio, checché se ne dica in questa società dominata dai negotia, merita di esistere in quanto dà forma e voce a tutto ciò che ci è più caro, prima fra tutti la nostra identità – parola che etimologicamente, ci tengo a ricordarlo, implica una molteplicità di cose “surrogabili l’una all’altra, senza che possa indursene mutamento di sorta” (etimo.it). Non siamo, quindi, ciò che produciamo, contrariamente a ciò che ci viene propinato quotidianamente; la nostra identità trascende le nostre maschere e funge da foce a estuario dove diverse acque si incontrano e si mescolano. Senza questa molteplicità, la nostra capacità di individui viene meno.

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